3° Seminario "Coscienza, medicina e alternative al sangue -   Attualità in tema di rifiuto emotrasfusionale"

PRESIDIO ZONA CASENTINO - Sabato 4 marzo 2000  ore 8:30 

'Biblioteca Comunale di Bibbiena' - Via Cappucci, 48 Bibbiena  - AR -

"IL MEDICO NON HA L'OBBLIGO GIURIDICO E DEONTOLOGICO AD IMPORRE L'ATTO TERAPEUTICO TRASFUSIONALE PROBABILMENTE RISOLUTIVO SU UN ADULTO CHE ABBIA ATTUALIZZATO E RIBADITO IL RIFIUTO NELL'IMMINENZA DELL'ATTO CHIRURGICO O POCO PRIMA DI PERDERE LO STATO DI COSCIENZA".

Avv. Riccardo Gilardoni

BREVI NOTE IN TEMA DI CONSENSO INFORMATO ED AUTODETERMINAZIONE DEL PAZIENTE (IL CASO PARTICOLARE DELL'EMOTRASFUSIONE)

Il nostro ordinamento tutela i diritti fondamentali ed inviolabili della persona (art. 2 Cost.), fra i quali si annovera quello della libertà personale (art. 13 Cost.), che si esplica, fra l'altro, nel diritto di libertà religiosa (art. 19 Cost.) e nel diritto alla salute (art. 32 Cost.). 
Quest'ultimo, in particolare, prevede la riserva di legge per l'imposizione di trattamenti sanitari ed il limite tassativo del rispetto della persona umana anche nell'esecuzione di trattamenti imposti. 
Diretta derivazione di tale principio costituzionale è il disposto dell'art. 33 della L. n. 833/78 che, appunto, prevede la generale volontarietà dei trattamenti sanitari (cfr.: art. 32 Codice Deontologia Medica). 
Volontarietà significa autodeterminazione nella scelta del trattamento, quantomeno nel senso della libertà di rifiuto di una determinata terapia. 
Perché possa esprimersi reale consenso alla terapia, detto consenso deve essere "informato", nel senso che il paziente deve essere posto in grado di conoscerne le caratteristiche, gli effetti (diretti e collaterali), nonché gli eventuali rischi, oltre - ovviamente - le eventuali alternative esistenti. 
D'altra parte, il consenso del paziente, se non può dirsi la "scriminante" (ex art. 50 c.p.) che rende lecito l'atto medico (lecito, infatti, di per sé), ne costituisce certamente il limite naturale invalicabile. 
Va, altresì, sottolineato che le motivazioni (di carattere religioso o non) e la rischiosità oggettiva della terapia non costituiscono elementi di rilievo per il rispetto del rifiuto nei confronti della terapia. 
Da ciò consegue che, di fronte al rifiuto da parte di un paziente adulto e cosciente, il medico non possa (e non debba) far altro che desistere, procurando di assistere il paziente stesso con tutte le altre tecniche e terapie disponibili. 
Si discute, da parte di alcuni, sul comportamento che il medico debba (o possa) tenere in caso di concreto ed attuale pericolo di vita del paziente per l'ipotesi in cui questi rifiuti una terapia "salvavita". 
Vi è chi sostiene, infatti, che il medico ometterebbe un atto dovuto rispettando il rifiuto e si renderebbe automaticamente responsabile della morte del paziente, così commettendo il reato di omicidio (colposo, se non doloso). 
Si sostiene, conseguentemente, che il medico non debba tener conto del dissenso e che possa eseguire la terapia rifiutata, senza rispondere di violenza privata od altro reato, in quanto scriminato dallo "stato di necessità" (ex art. 54 c.p.) che esclude la punibilità della condotta finalizzata a salvare l'altrui vita. 
La ricostruzione è fallace e risente, in realtà, di una concezione sostanzialmente paternalistica della professione medica secondo la quale è dovere (e fors'anche diritto) del medico curare il malato secondo propria scienza e propria coscienza, oltre che della (a volte mal celata) convinzione della "obiettiva irragionevolezza" del rifiuto di determinate terapie (emotrasfusione, particolarmente). 
In realtà, se è indiscutibile che il medico abbia l'obbligo di prestare adeguata cura al paziente, è anche vero che l'obbligo sorge in quanto il paziente vi si sottopone ed accetta la terapia. 
Diversamente opinando, il medico che operasse per salvare la vita al proprio paziente, nonostante il di lui dissenso rispetto alla terapia, dovrebbe dirsi scriminato non già dal citato art. 54 c.p. (di cui meglio si dirà), ma dall'art. 51 c.p. (adempimento di un dovere), esattamente come, per intendersi, non risponde di sequestro di persona il carabiniere che provvede ad un arresto a termini di legge. 
Di fronte ad un cosciente ed "adulto" rifiuto, nessuna responsabilità può attribuirsi al medico che abbia rispettato il dissenso. 
Nel caso in cui il soggetto sia, infatti, titolare di entrambi gli interessi (per altro, di pari dignità costituzionale) non può che essere lasciato al medesimo il diritto di decidere quale considerare prevalente. Sarà, quindi, solamente sulla base di un "consenso (anche presunto) dell'avente diritto" che si potrà ledere un interesse per tutelarne un altro. 
In difetto, si arriverebbe all'illecita sottoposizione del paziente all'arbitrio del medico solamente a causa delle sue gravi condizioni di salute, in realtà finendo per contrapporre non il diritto alla vita ed il diritto all'autodeterminazione, bensì il diritto del medico di curare secondo la propria coscienza ed il diritto del paziente ad essere curato secondo la sua propria. 
Ed il diritto di curare secondo coscienza mai potrebbe prevalere sul diritto ad essere curato secondo coscienza. 
Ma l'inconferenza della scriminante dello stato di necessità si ricava anche "aliunde". 
Difatti, l'art. 2045 c.c. prevede l'indennizzabilità del danno patito dalla "vittima" della condotta scriminata ex art. 54 c.p. (del quale costituisce "pendant")- 
Or dunque, è logicamente incompatibile prevedere un indennizzo (destinato a ristorare) quando il soggetto si sia visto ledere al solo scopo e con il risultato della tutela di un interesse prevalente. 
Quale senso può avere l'indennizzo a favore di chi è stato, a conti fatti, avvantaggiato? 
E' ovvio, quindi, che il danneggiato deve essere soggetto diverso dal "beneficiario" della condotta scriminata dall'art. 54 c.p.- 
Il vero problema non è, quindi, quello del rifiuto cosciente ed "adulto", bensì quello determinato dal paziente non in grado di esprimere consenso o dissenso a causa della propria minore età o del proprio stato di incoscienza. 
Quanto a quest'ultimo, sia chiaro, lo stesso è rilevante soltanto ove abbia impedito l'espressione di un consenso o di un dissenso, giacché lo stato di incoscienza sopravvenuto è irrilevante, rimanendo valida la volontà espressa prima della perdita di coscienza. 
Nel caso in cui, invece e per l'appunto, lo stato di incoscienza sia "originario", la situazione appare assai delicata. 
Legittimamente il consenso ad una congrua terapia deve presumersi in capo a chiunque non sia in grado di esprimere opinione contraria, ragion per cui non è possibile presumere la volontà di rinunciare ad una terapia salvavita (cfr. art. 35 Codice Deontologia Medica). 
Si tratta, tuttavia, di presunzione relativa, la quale ammette prova contraria (anche se è chiaro che, stante la rilevanza dell'interesse in giuoco, detta prova contraria dovrà avere un grado di attendibilità notevolissimo). 
E' indiscutibile, per altro, che può ritenersi sufficiente, ad esempio, una dichiarazione predisposta e recata seco dal paziente, sempre che - ovviamente - non siamo noti elementi in senso contrario. 
Altrettanto delicata è la questione relativa ai minori. 
Questi ultimi non hanno capacità di autodeterminazione, ragion per cui, relativamente ai medesimi, non v'è dichiarazione che possa superare la "presunzione di consenso" di cui sopra si è detto. 
Il parere dei genitori, ove dissenziente rispetto alla terapia, non può ritenersi determinante: spetterà al Magistrato (Tribunale per i Minorenni) disporre nell'interesse del minore. 
E' evidente che il serio dubbio sull'assenso ad una determinata terapia, ovvero il fermo dissenso espresso dai genitori del minore, in particolar modo quando, come per il caso dell'emotrasfusione (cfr. DM. 15.01.1991), la terapia stessa non sia esente da rischi, impone al medico ancora maggiore cautela nel procedere solamente ove la stessa sia assolutamente indispensabile e non vi siano valide alternative disponibili.


    Riccardo Gilardoni 
    Avvocato in Arezzo