Sentenza Risarcitoria per Remo Liessi per i suoi BioDiritti violentemente calpestati fino alla morte

Morto, ma vivo nei cuori di chi sostiene come vincolante il Diritto all'autodeterminazione di Consenso o Dissenso di un trattamento sanitario e del Diritto alle libertà e convinzioni religiose

I BioDiritti calpestati nel maggio 1996 a Milano con Trasfusioni coatte sul sig. Remo Liessi  testimone di Geova morto legato al letto con le sue urla durante questo violento e indegno trattamento rifiutato. 

Qui la sentenza di dignità della Corte di App. Milano, I Sez. Civ., 19 agosto 2011, n. 2359/2011. Il coraggio di Vittoria De Amicis (la moglie) ha contribuito alla presa di posizione di Illustri Coscienze di Esperti in Etica Medica e Giuridica che hanno pubblicamente denunciato questa morte con sopraffazione per 15 anni fino alla sentenza nel 2011. Leggete questa Storia drammatica ricostruita nella sentenza. Remo Liessi Martire dei Biodiritti. Morto, ma vivo nei cuori di chi sostiene come vincolante il Diritto all'autodeterminazione di Consenso o Dissenso di un trattamento sanitario e del Diritto alle libertà e convinzioni religiose


Pubblichiamo la Sentenza della Corte di Appello di Milano e il Commento reso pubblico in molte riviste Giuridiche. 

Potrete leggere la denuncia del Prof. Mauro Barni espressa assieme al Magistrato Dott. Sergio Fucci e al Prof.  Vittorio Fineschi e Prof. P.G.Macrì  durante il  1°Seminario "Coscienza Medicina e Alternative al Sangue" in tema di Rifiuto all'emotrasfusione organizzato in collaborazione del Comitato Etico USL8 ad Arezzo nell'Auditorium della Prefettura (Palazzo del Governo)  il 5.02.2000 - Potrete seguire i video delle denunce espresse sul Caso dai Giuristi e  esperti relatori. 


Presentiamo la sentenza con questa relazione del Sig. Daniele Gabriele, inviata e pubblicata su molti siti e Riviste Giuridiche tramite l'Ufficio Legale della Congregazione Cristiana Testimoni di Geova. 

"In allegato la sentenza della Corte di Appello di Milano, I Sez. Civ., del 19 agosto 2011, n. 2359/2011, presidente dott. Giuseppe Patrone, che riguarda la causa intentata dalla vedova del ministro di culto della Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova, il sig. Remo Liessi, trasfuso coattivamente nel maggio del 1996 dai medici dell’ospedale San Carlo di Milano dove era stato ricoverato per una neoplasia gastrica maligna mentre era pienamente cosciente e capace. Il paziente purtroppo moriva mentre era in corso la trasfusione coatta.

La vedova Liessi conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Milano l’Ospedale San Carlo ed i dott.ri responsabili della trasfusione coatta, contestando loro la condotta inadeguata ed illegittima tenuta nei confronti del defunto marito per aver violato il diritto di autodeterminazione del congiunto, la sua integrità fisica, la sua dignità, la sua libertà personale, il suo diritto di professare il credo religioso di appartenenza, ed infine per averne causato la morte tra sofferenze fisiche, morali ed umiliazioni.

Con sentenza n. 14883/2008, il Tribunale di Milano, giudice unico dott.sa Maria Jole Fontanella, negava in concreto il diritto del Liessi di rifiutare l’emotrasfusione, ma riteneva inadeguato e brutale il comportamento dei sanitari e pertanto solo per quest’ultimo li condannava in solido con l’Ospedale S. Carlo al risarcimento dei danni causati a Remo Liessi ed alla moglie Vittoria De Amicis in Liessi per complessive € 32.000,00.

In considerazione di tale ingiusta sentenza la Sig.ra Liessi proponeva ricorso in Appello per i seguenti tre motivi così come sono espressi nella stessa sentenza della Corte di Appello di Milano del 19 agosto 2011: a) con il primo motivo l’appellante censura la decisione del Tribunale di Milano che avrebbe negato il diritto di autodeterminazione del paziente ricoverato, la cui violazione integra gli estremi dei reati di cui agli artt. 589, 605 e 610 c.p.; b) con il secondo motivo l’appellante ha censurato la decisione del Tribunale di Milano che ha negato la violazione del diritto del Liessi ad essere dimesso dall’Ospedale S. Carlo; c) con il terzo motivo l’appellante ha dedotto la inadeguatezza del risarcimento liquidato e il mancato riconoscimento del danno patrimoniale.

La Corte di Appello di Milano con la sentenza del 19 agosto 2011, n. 2359/2011 ha ritenuto fondati tutti e tre i motivi di ricorso.

In particolare in relazione al primo motivo alla pag. 16-17 si legge: “Rileva la Corte che la proposta censura appare del tutto fondata dal momento che decisione resa in questi termini dal primo giudice è contraddittoria, perché pone sul piano della norma Costituzionale norme di rango inferiore, perché non trova riscontro nei dati normativi vigenti, perché svuota di contenuto gli artt. 2, 13, 32, 2° c. e 19 Cost., negando il diritto del paziente ricoverato di rifiutare un trattamento sanitario, perché è ancorata al vecchio modo di concepire il rapporto medico/paziente, perché nega il principio del “consenso informato”, inteso come sintesi dei diritti all’autodeterminazione e alla salute, principio ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione Sezioni Penali, della Corte di Cassazione Sezioni Civili, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e recepito ampiamente dalla giurisprudenza dei Tribunali e delle Corti di merito”.
Di conseguenza si può affermare senza alcun dubbio che la scriminante dello stato di necessità può operare, in campo medico, solo nei casi di urgenza, quando manchi del tutto la possibilità di conoscere la volontà del paziente in relazione al trattamento sanitario giudicato assolutamente necessario.

Il caso tipico è quello che si realizza in campo medico-chirurgico, quando la situazione di urgenza non consente di attendere che il paziente incosciente riprenda conoscenza ed esprima il proprio consenso o rifiuto all’atto terapeutico.
Al contrario, come nel caso del Sig. Liessi, quando la persona sia cosciente e capace di intendere e volere, se manifesta un consapevole “dissenso” al trattamento medico, non può essere “obbligata” a sottostarvi e l’art. 54 c.p. si arresta per un suo limite normativo implicito innanzi all’esercizio di un diritto fondamentale dell’individuo, costituzionalmente tutelato.
Se, invece, dallo stato di necessità discendesse un potere per il medico di intervenire sul paziente contro la sua lucida ed informata volontà, ne deriverebbe che una norma di rango secondario derogherebbe ai principi costituzionali dell’autodeterminazione, della libertà personale e religiosa.

A sostegno di ciò alla pag. 19 della sentenza i giudici hanno affermato “… che come la salute, neppure la tutela del bene vita, in realtà, può giustificare, alla luce del dettato costituzionale, la limitazione del diritto di autodeterminazione del paziente circa le cure cui sottoporsi. È inconciliabile, infatti, con la previsione dell’art. 32 2° comma Cost., la limitazione del diritto di autodeterminazione fondato sulla tutela prevalente del bene vita, sulla indisponibilità della vita ai sensi dell’art. 579 c.p. e 580 c.p., che sono norme peraltro di rango subordinato a quello costituzionale. Peraltro questa stessa Corte si è espressa in argomento con il decreto n. 88, del 25 giugno 2008, allorché alla pag. 27, ha affermato che non esiste nel nostro ordinamento giuridico nessun bene vita, inteso ‘come un’entità esterna all’uomo, che possa imporsi … anche contro ed a dispetto della volontà dell’uomo’ ma esiste invece il bene di vivere da uomo libero con la propria identità e dignità”.
Per quanto riguarda la liquidazione del danno, il terzo motivo del ricorso dell’appellante, la Corte ha affermato: “Orbene esaminando con animo scevro da pregiudizi l’intera vicenda oggi sottoposta alla delibazione della Corte non pare revocabile in dubbio che: a – il Liessi, legato ad un letto di ospedale, in presenza degli agenti della Polizia di Stato che allontanava dalla sua stanza la moglie, i parenti e gli amici, ha subito la più umiliante violazione della libertà personale; b – il Liessi, trasfuso coattivamente dopo essere stato legato ad un letto e privato del conforto dei cari, è stato offeso nella sua dignità di uomo, prima ancora che di ministro di culto; c – il. Liessi è stato costretto a subire la violazione dei principi religiosi in cui credeva fermamente, tanto da dedicare la sua vita per insegnarli agli altri, il Liessi è stato offeso anche nel suo profondissimo sentimento religioso, di ministro di culto e di fedele. d – al Liessi è stato negato il diritto di vivere il tempo rimasto nella serena consapevolezza di aver rispettato sempre i precetti religiosi cui aveva improntato la sua vita e quindi è stato leso il suo diritto all’identità personale.

Quindi, accanto ed oltre al danno biologico per la violazione della sua integrità fisica, ricorre nel caso del Liessi la violazione della libertà di autodeterminazione del paziente, della sua libertà personale, della sua dignità, della sua libertà religiosa, tutte posizioni riconosciute e tutelate dalla Costituzione. Trattasi – come è evidente – dì violazioni di diritti tutti costituzionalmente garantiti e tutelati, onde assai rilevante deve ritenersi essere stato il vulnus sofferto dal paziente Liessi Remo, morto vittima di profonda sofferenza morale, subendo la violazione di diritti costituzionali che ogni comunità democratica giudica inviolabili e che avrebbero meritato ben altra considerazione. E tale diversa considerazione è chiamata ad operare la Corte la quale, in coerenza con quanto fin qui affermato liquida unitariamente il ridetto danno non patrimoniale (o danno morale soggettivo) nella somma di € 300.000,00 in moneta attuale e quindi con l’aggiunta dei soli interessi legali dalla data della decisione dì secondo grado al saldo”.

In relazione ai danni subiti dalla vedova la Corte d’Appello si è così espressa: “A proposito della posizione del coniuge superstite va detto che nella condotta degli odierni appellati sono sicuramente ravvisabili alcune ipotesi di reato quanto meno sotto il profilo della violenza privata e del sequestro di persona con le aggravanti ex art. 112 c.p., con la conseguenza che bene a costei – che di gran parte della vicenda è stata testimone oculare e che per altra parte l’ha vissuta con lo strazio del soggetto escluso con la forza dal luogo nel quale si sono consumati le violenti condotte ai danni del coniuge deve essere liquidato per queste sofferenze anche il danno morale ex art. 185 c.p. e 2059 c.c., oltre al danno morale per la perdita del coniuge. Tale danno morale globalmente la Corte stima equo determinare nella complessiva misura di € 100.000,00, sempre in moneta attuale e quindi con l’aggiunta dei soli interessi legali dalla data della decisione di secondo grado al saldo”.
Sono toccanti le parole espresse dalla Corte nella parte finale delle motivazioni, pag. 23 “In ultima analisi questa Corte non può non condividere appieno le argomentazioni conclusive svolte sul punto dalla difesa dell’appellante allorché afferma che ‘Alla base di questo dilemma c’è, in un’ultima analisi, l’erronea interpretazione del proprio ruolo, ancorato evidentemente all’idea sbagliata che il medico sia il dominus della salute del paziente e che debba fare tutto quanto reputi necessario nell’interesse di questi. Vi è inoltre la presunzione dei medici di una sorta di validità assoluta del proprio sistema di valori e quindi l’erronea convinzione che i beni che intendevano tutelare (la salute e la vita del paziente) valessero universalmente come beni superiori, secondo una personalissima quanto limitata scala dì valori, in cui peraltro non si teneva conto della salute, intesa come benessere psichico dell’individuo, e della vita, intesa nel suo senso più ampio, comprendente il diritto a scegliere come vivere (comprendente anche il come morire), sostanziato dal diritto di autodeterminazione, dal diritto all’integrità del corpo ed al rifiuto di interventi non desiderati’.

Riteniamo che questa sentenza, ben argomentata nelle sue motivazioni dai giudici della Corte di Appello di Milano, possa contribuire ad affermare definitivamente diritti di rango costituzionale quali quelli alla libertà di autodeterminazione del paziente, alla sua libertà personale, alla sua dignità e alla sua libertà religiosa."

Daniele Gabriele – Ufficio Legale Congregazione Testimone di Geova

TESTO DELLA SENTENZA

N 387/2010 R.G. 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE D'APPELLO DI MILANO

SEZIONE 1" CIVILE
composta dai Sigg. Magistrati:
dott. Giuseppe Patrone Presidente Rel.
dott. Rosella Boiti Consigliere
dott. Cinzia Zoia Consigliere
ha pronunziato la seguente

SENTENZA

nella causa civile promossa in grado di appello con citazione notificata in data 21.01.2010 e posta in decisione sulle conclusioni rassegnate ali 'udienza del giorno 05.04.2011

FRA

De Amicis Vittoria ved. Liessi elettivamente domiciliati in Milano alla via E. Besana, 11 presso lo studio dell'avv. Angelo Iannaccone che la rappresenta e difende, unitamente all'avv. Prof Pietro Rescigno ed all'avv.to Giovanni Cavallo del foro di Roma per delega in calce all'atto di citazione in appello.

APPELLANTE

E

Azienda Ospedaliera Ospedale S. Carlo Borromeo, dott. Giuseppe Bonfardeci, dott. Rinaldo Maino, dott. Claudio Luigi Enrico Mariani, Laura Speccher (quale erede del dott. Attilio Maria Bigatello), Anna Chiara Bigatello (quale erede del dott. Attilio Maria Bigatello) elettivamente tutti domiciliati in Milano alla P.zza Velasca, 5 presso lo studio dell'avv. Luigi Picone che li rappresenta e difende: 

- i primi quattro per delega in calce alle comparse di riassunzione ad essi rispettivamente notificati nel giudizio di primo grado,

R.G. 387/2010    1   Il Presidente Relatore (Dott. Giuseppe Patrone)                                                                 


-le ultime due per delega in calce ali 'atto di citazione in appello.

APPELLATI - APPELLANTI INCIDENTALlO


avente ad oggetto: responsabilità professionale

sulle conclusioni così come di seguito trascritte. appellante all. A

appellati all. B

R.G. 387/2010    2   Il Presidente Relatore (Dott. Giuseppe Patrone) 


CONCLUSIONI PER L'APPELLANTE

Voglia l'ill.ma Corte di Appello di Milano, ogni contraria istanza disattesa e  respinta, in parziale riforma della sentenza impugnata. così giudicare:
nel merito in via principale
A) dichiarare l'Azienda Ospedaliera "Ospedale San Carlo Borromeo", in  persona del legale rappresentante pro-tempore, il Dr. Giuseppe Bonfardeci, il  Dr. Rinaldo Majno, la sig.ra Laura Specchiere la sig.ra Anna Chiara Bigatello  quali eredi del defunto Dr. Attilio Maria Bigatello, il Dr. Claudio Luigi Enrico  Mariani responsabili della violazione dei diritti dcl paziente, riconosciuti dalla  normativa vigente ed in particolare dalla stessa Carta Costituzionale ali' art  32, nonché dall'art. I, comma I 0 della Legge 13 maggio 1978 n. 180, dall'art.  14 ultimo comma del D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, dall'art. 33, comma 1°,  della Legge 23 dicembre 1978 n. 833, per aver praticato la trasfusione di  sangue coatta nonostante la volontà contraria manifestata dal paziente Remo  Liessi;
B) dichiarare i convenuti responsabili della violazione quantomeno degli articoli 589, 610, 605 e 112 c.p.:
a) dell'articolo 5S9 c.p. per aver causato la morte del paziente Remo Liessi;
b) dell'articolo 610 c.p. per aver costretto con violenza Remo Liessi a subire il  detto trattamento;
c) dell'articolo 605 c.p. per aver privato Remo Liessi della libertà personale, rifiutandogli illegittimamente la dimissione dallo stesso richiesta:
d) dell'articolo 112 c.p., perché nella fattispecie ricorrono le aggravanti ivi
previste
C) condannare conseguentemente l'Azienda Ospedaliera "Ospedale San Carlo Borromeo", in persona del legale rappresentante pro-tempore, il Dr. Giuseppe
Bonfardeci, il Dr. Rinaldo Majno, la sig.ra Laura Specchier e la sig.ra Anna Chiara Bigatello quali eredi del detì.mto Dr. Attilio Maria Bigatello, il Dr. Claudio Luigi Enrico Mariani, in solido tra loro al risarcimento in favore della sig.ra De Amicis Liessi Vittoria, sia in proprio che quale crede del defunto Remo Liessi, dei danni tutti subiti, patrimoniali e non patrimoniali, ivi compreso il danno morale. il danno biologico, il danno per la lesione dei diritti personali e familiari, il danno alla vita cli relazione ed ai rapporti affettivi ed interfamiliari, nonché quello alla propria integrità psico-tisica, subito dalla sig.ra De Amicis Liessi Vittoria per la perdita ciel marito, e quello alla integrità psico-tisica subito dal defunto Remo Liessi, da liquidarsi nella
misura ritenuta di giustizia;
nel merito in via subordinata
nella denegata ipotesi in cui sì ritenesse ricorrere comunque l'esimente di cui
all'art 54 c.p.:
A) dichiarare l'Azienda Ospedaliera "Ospedale San Carlo Borromeo", in persona del legale rappresentante pro-tcmpore, il Dr. Giuseppe Bonfardcci. il Dr. Rinaldo Majno, la sìg.ra Laura Specchier e la sig.ra Anna Chiara Bigatello  quali eredi del defunto Dr. Attilio Maria Bigatello, il Dr. Claudio Luigi Enrico Mariani responsabili della violazione dei diritti del paziente, riconosciuti dalla normativa vigente ed in particolare dalla stessa Carta Costituzionale ali' art 32. nonché dall'art. I, comma 1° della Legge 13 maggio 1978 n. 180. dall'art.  14 ultimo comma del D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, dall'art. 33, comma 1°. della Legge 23 dicembre 1978 n. 833. per aver praticato la trasfusione di sangue coatta nonostante la volontà contraria manifestata dal paziente Remo Liessi;
B) dichiarare l'Azienda Ospedaliera ·'Ospedale San Carlo Borromeo", in persona del legale rappresentante pro-tempore, il Dr. Giuseppe Bonfardeci, il Dr. Rinaldo Majno, la sig.ra Laura Specchiere la sig.ra Anna Chiara Bigatello quali eredi del defunto Dr. Attilio Maria Bigatello, il Dr. Claudio Luigi Enrico Mariani responsabili della violazione quantomeno degli articoli 589, 610, 605 e 112 c.p.:
a) dell'articolo 589 c.p. per aver causato la morte del paziente Remo Liessi;
b) dell'articolo 610 c.p. per aver costretto con violenza Remo Liessi a subire il detto trattamento;
c) dell'articolo 605 c.p. per aver privato Remo Liessi della libertà personale, rifiutandogli illegittimamente la dimissione dallo stesso richiesta;
d) dell'articolo 112 c.p., perché nella fattispecie ricorrono le aggravanti ivi previste.
C) condannare l'Azienda Ospedaliera "Ospedale San Carlo Borromeo". in persona del legale rappresentante pro-tempore, il Dr. Giuseppe Bonfardeci, il Dr. Rinaldo Majno. la sig.ra Laura Specchiere la sig.ra Anna Chiara Bigatello quali eredi del defunto Dr. Attilio Maria Bigatello, il Dr. Claudio Luigi Enrico Mariani, in solido tra loro, a sensi dell'articolo 2045 e.e .. al pagamento in favore della sig.ra De Amicis Liessi Vittoria, sia in proprio che quale erede del defunto Remo Liessi, di una indennità per i fatti di cui in premessa nella misura da stabilirsi secondo l'equo apprezzamento dell'lll.mo Giudicante;
in ogni caso con vittoria di spese. diritti cd onorari di causa.


STUDIO LEGALE
Avvocato LUIGI PICONE
C.F. PCNLGU37Bl9D969C
P.zza Velasca, 5 - 20122 MILANO
Tel. 02.72002094 - 02.72003683
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CORTE DI APPELLO DI MILANO

SEZ. 1" CIVILE; R.G. 387 /10

RELATORE IL PRESIDENTE DR. PATRONE


CONCLUSIONI PER
1) L'AZIENDA OSPEDALIERA "OSPEDALE SAN CARLO
BORROMEO"
2) IL DR. GIUSEPPE BONFARDECI
3) IL DR. RINALDO MAJNO
4) IL DR. CLAUDIO LUIGI ENRICO MARIANI
5) LA SIG.RA LAURA SPECCHER
6) LA SIG.NA ANNA CHIARA BIGATELLO
appellati ed appellanti incidentali.
Voglia la Corte di Appello di Milano respingere l'appello della sig.ra Liessi in proprio e nella qualità. In accoglimento dell'appello incidentale voglia la Corre di Appello riformare la sentenza impugnata laddove il Tribunale ha ritenuto dichiarandone la non dovutezza sia con riguardo ai danni  pretesamente subiti dal sig. Liessi sia con riguardo a quelli pretesamente subiti dalla sig.ra Liessi. 

In estremo subordine, ove ritenuto lo stato di necessità, liquidare l'indennità di cui all'art. 2045 e.e. nelle misure non superiori a quanto già liquidato, pur a diverso titolo, dal Tribunale, e, considerato che la sentenza di 1° grado è già stata eseguita, dichiarare che null'altro sia dovuto dagli appellati e appellanti incidentali.
Mandare comunque ed in ogni caso assolti il dr. Bigatello ed il dr.
Bonfardeci.
Non si accetta il contraddittorio su domande nuove o non
tempestivamente e ritualmente proposte.
Spese compensate.
2




SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 21.01.2010 De Amicis Vittoria ved. Liessi ha
convenuto in giudizio avanti a questa Corte d'appello di Milano Azienda Ospedaliera Ospedale S. Carlo Borromeo, doti. Giuseppe Bonfardeci, dott. Rinaldo Maino, doti. Claudio Luigi Enrico Mariani, Laura Speccher (quale erede del doti. Attilio Maria Bigatello), Anna Chiara Bigatello  (quale erede del doti. Attilio Maria Bigatello) per proporre impugnazione avverso la sentenza n.ro 14883/2008 resa fra le parti in data 13.12.2008 dal Tribunale di Milano con la quale tutti gli appellati erano stati condannati al risarcimento del danno in favore dell'appellante nella misura di € 20.000,00, oltre accessori.
La citata sentenza aveva posto termine al processo di primo grado avviato - secondo la  ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice - da De Amicis Liessi Vittoria, in proprio e quale  erede del marito Remo Liessi la quale "Con atto di citazione ritualmente notificato, conveniva in  giudizio Azienda ospedaliera "Ospedale San Carlo Borromeo" ed i medici Bonfardeci Giuseppe, Majno Rinaldo, Bigatello Attilio Maria e Mariani Claudio Luigi Enrico esponendo :
- il giorno 21/5/1996 il coniuge Remo Liessi era stato trasportato con autoambulanza dal!' Ospedale  Fatebenefratelli all' Ospedale San Carlo Borromeo, dove era stato ricoverato con la diagnosi di "ematemesi ed emelena da sospetta neoplasia gastrica "
- nei giorni precedenti i sanitari del!' Ospedale Fatebenefratelli che per primi avevano avuto in cura il Liessi a seguito di un improvviso malore, riscontrata un'ulcera allo stomaco che avevano emostatizzato, avevano diagnosticato una neoplasia gastrica maligna e prospettato la necessità di effettuare terapia emotrasfusionale, che il paziente, ministro del culto dei Testimoni di Geova,
aveva categoricamente rifiutato;
- fin dall' inizio del ricovero, infatti il Lessi, aveva informato i sanitari delle proprie convinzioni religiose ed aveva altresì consegnato un documento scritto di proprio pugno nel quale manifestava chiaramente e decisamente il rifiuto di essere curato con trasfusioni di sangue; le insistenze dei medici ed il timore di subire trasfusioni coatte avevano convinto il Liessi a chiedere di essere dimesso e trasferito presso la struttura sanitaria convenuta, dove il prof Tenchini, primario della nona divisione sez. A aveva assicurato il rispetto delle sue convinzioni e volontà ;
- qui giunto, i sanitari avevano nuovamente proposto terapie trasfusionali, che il Liessi aveva ripetutamente rifiutato, chiedendo nuovamente di essere dimesso, avevano effettuato un tentativo di TAC non portato a termine per sopravvenuto malore, avevano chiesto un consulto psichiatrico, dal quale non era emersa alcuna alterazione mentale ma solo la ferma intenzione, ribadita anche dai
 
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parenti presenti, di rifiutare la trasfusione, avevano allora chiesto l 'autorizzazione al TSO al  magistrato di turno, dopo di che avevano convocato agenti della Polizia di Stato per far allontanare i familiari e, con l'aiuto di infermieri, avevano immobilizzato il paziente ed iniziato ad effettuare la trasfusione. Vi era stata una colluttazione, le urla del Li essi seguite da un lungo silenzio;
- poco dopo i medici avevano comunicato ai familiari in attesa che il paziente era morto per complicazioni cardiache intervenute nel corso della trasfusione coatta.
Il processo penale si era concluso con 1' archiviazione, avendo il GIP del Tribunale di Milano ritenuto che, pur avendo lo stress psicofisico indotto dalla forzata trasfusione svolto un ruolo concausale nel determinismo del decesso, tuttavia, stante il conflitto di interessi etico giuridici implicati, doveva escludersi la qualificazione penale della condotta dei medici .
Tutto ciò esposto, concludeva l'esponente chiedendo l' accertamento della responsabilità dei convenuti per la violazione dei diritti del paziente e per averne causato la morte, e la condanna degli stessi in solido al risarcimento del danno provocato, o, in subordine, al pagamento di una indennità ex art. 2045 cc. oltre, in ogni caso, al pagamento delle spese di causa.
Si costituivano i convenuti eccependo di avere agito in stato di necessità a fronte del pericolo di vita per il paziente, la cui patologia non presentava altra percorribile alternativa terapeutica che la trasfusione, e rilevando come la libertà religiosa non possa travalicare i principi fondamentali dell'ordinamento che non riconosce un diritto a morire, mentre impone ai sanitari un obbligo di protezione e tutela della salute. Il Liessi era affetto da una grave forma di neoplasia, la violenta ed inarrestabile emorragia lo avrebbe sicuramente portato a morte, ma nonostante la sua reiterata richiesta di voler vivere ed essere curato ed il suo rifiuto di dimissione, insisteva nel non sottoporsi a trasfusione, che era l'unico rimedio per tenerlo in vita e consentirgli di affrontare, in un secondo tempo, I' intervento chirurgico che la patologia da cui era affetto imponeva.
Ciò dedotto, ribadivano i sanitari di avere agito in scienza e coscienza e concludevano chiedendo il rigetto della domanda";
Radicatosi in tal guisa il contraddittorio, espletate le prove orali dedotte dalle parti e dallo stesso giudicante ammesse, esperita altresì una CTU medica era pervenuto alla decisione oggi impugnata sul plurimo rilievo che:
a - "Un paziente ricoverato in una struttura sanitaria pubblica e riscontrato affetto da "neoplasia gastrica- emorragia gastro intestinale - infarto miocardio" viene sottoposto contro la sua volontà - chiaramente e reiteratamente manifestata unitamente alla relativa giustificazione (è ministro del culto dei Testimoni di Geova) - a trasfusioni coatte attuate per il tramite della contenzione e della forza pubblica. L' intervento terapeutico si realizza in un clima di estrema tensione (dalla cartella
clinica : "li paziente rifiuta con la violenza e con urla le emotrasfusione. La forza pubblica allontana

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i familiari dalla stanza che si oppongono a gran voce. Si decide di contenere il paziente per poter attivare l 'emotrasfusione") il programma trasfusionale viene iniziato e proseguito malgrado il Liessi manifesti un evidente e crescente stato di stress.( dalla cartella clinica ... " li paziente è agitatissimo
ed incontattabile, in preda ad uno stato di agitazione psicomotoria grave") Alla infusione della terza sacca di sangue si verifica crisi !ipotimica con arresto del respiro, si attuano pratiche rianimatorie, ma dopo mezz'ora circa il paziente muore.";
b - "Lamenta \'attrice a mezzo dei consulenti tecnici di parte che la trasfusione non era necessaria  nè indicata, che \'aggravamento delle condizioni del paziente era stato determinato da incongrue manovre diagnostiche (TAC) non autorizzate, che in relazione alla patologia sofferta dal Li essi erano attuabili terapie alternative altrettanto efficaci, che non sussistevano invece ì presupposti per il TSO finalizzato alla emotrasfusione, che lo stress provocato dalla contenzione e dalla coartazione 
era stato causa del decesso ";
c - "Le questioni qui rilevanti sono relative alle conseguenze sul piano girnidico della effettuazione di un trattamento sanitario non autorizzato, anzi espressamente e consapevolmente rifiutato, ma ritenuto dai curanti di sostegno vitale, con la preliminare puntualizzazione che la emotrasfusione non è prevista tra i trattamenti sanitari obbligatori ex art. 32/2 Coste L. 13/3/1978 n.180, dovendosi escludere una situazione di incapacità o malattia mentale del paziente che, anzi, visitato da un
medico psichiatra poche ore prima del decesso era risultato "orientato, collaborante Ribadisce il rifiuto già opposto alle trasfusioni richiedendo cure compatibili con le sue convinzioni religiose che gli impediscono di accettare sangue ..... ";
d - "Nella "proposta di TSO medico" sottoscritta dal dr. Rinaldo Majno il 23/5/96 alle h. 18,45 ( cfr. doc. in fase. di parte) premessa la valutazione del pericolo di vita, non è stata inserita alcuna indicazione circa il trattamento sanitario cui si intendeva sottoporre il paziente né I' autorità cui tale richiesta era rivolta ed è stata inoltrata, né, tantomeno, il suo esito. Si tratta perciò di un documento del tutto irrilevante. E' altresì da escludere la legittimità giuridica della condotta medica sulla base di autorizzazioni richieste e asseritamene concesse dall'Autorità Giudiziaria, notoriamente priva di competenza ad intervenire in tali questioni.";
e - Alla luce delle chiare , puntuali e rigorose analisi e valutazioni dei consulenti d' ufficio deve riconoscersi che il pericolo di vita sussisteva cd era dipendente dal gravissimo stato di anemizzazione e che, sulla base dello stato delle conoscenze scientifiche del tempo, unico intervento terapeutico idoneo e necessario per tenere in vita il paziente era il ricorso alla emotrasfusione, in conformità alle linee guida italiane ed internazionali. Stante I' attualità del pericolo di vita, il procrastinare - come era stato fatto fino a quel momento - l'omissione di questa terapia avrebbe quasi certamente condotto a morte il paziente nel giro di breve tempo.";

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f - "Chiarito ciò, la valutazione della fattispecie esige il richiamo al dibattito in corso sul rapporto tra i doveri di protezione e garanzia che incombono sul medico ed il diritto di autodeterminazione del paziente, e dunque, sui limiti etici e giuridici del!' intervento medico. In proposito si deve rilevare che probabilmente il clima di generale sfiducia nelle relazioni sociali e professionali che caratterizza il nostro tempo ha fatto si che questo rapporto sia configurato e prospettato, anche nella
forma fisiologica, in termini conflittuali, piuttosto che di correlazione e complementarietà, così che nella elaborazione giurisprudenziale più recente sembra essere stata progressivamente abbandonata l'ipotesi della individuazione di un punto di equilibrio fra valori di pari rango costituzionale a favore della ricerca del primato di uno dei due sul!' altro. Non va sottovalutata poi in questa materia
l'assenza di fonti normative specifiche e la presenza invece di implicazioni scientifiche, etiche, politiche, inevitabilmente destinate ad influenzare variamente nel tempo l'esperienza del nascere, del curare, del morire e così gli stili di vita, i modelli e le aspettative sociali, così che gli interventi giudiziari che si sono succeduti in questi ultimi anni rappresentano tappe, risposte contingenti del
processo di armonizzazione, nell'ottica dei principi costituzionali (art.2 e art.32/2 Cast.), delle crescenti aspirazioni individuali di libertà con esigenze sociali irrinunciabili di solidarietà e di sicurezza, ma non possono avere la pretesa di risposte definitive e assolute perché sempre diverse sono le situazioni concrete.che si prospettano al!' interprete.";
f "E' certo che sulla base della legislazione emanata in ambito sanitario ( si richiama l'art.33 della legge istitutiva del SSN n.833/78 che qualifica i trattamenti sanitari come, di nonna volontari) e delle innumerevoli pronunce giurisdizionali, il nostro sistema giuridico si caratterizza attualmente in materia di autodeterminazione consapevole del paziente per una soglia particolarmente elevata del consenso ai trattamenti sanitari, sostenuta da uno scopo di rango elevato qual' è il diritto alla salute.
E' proprio questa soglia che qualifica il rapporto fra medico e paziente imponendo al medico di non attribuire alle sue valutazioni e decisioni, per quanto oggettivamente dirette alla salvaguardia del diritto alla salute del paziente, una forza di giustificazione del!' intervento che esse di per se sole non hanno - o meglio , non hanno più come in passato - giacche devono rapportarsi con un altro diritto di rango costituzionale qual' è quello della libertà personale che l'art.13 qualifica come
inviolabile.";
g - "L'esercizio di quest' ultimo diritto può avere come manifestazione concreta il rifiuto di cure finalizzate alla sopravvivenza? Sono note le correnti di pensiero che si sono formate in relazione a questa domanda: una parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che il diritto a rifiutare il trattamento trovi un limite nelle superiori esigenze di salvaguardia della vita umana concepita come valore supremo, non disponibile; l'orientamento opposto sostiene che trattamenti sanitari anche di sostegno vitale non possano essere imposti contro la volontà di un soggetto coscientemente

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dissenziente. E' questa la soluzione condivisa da ultimo dalla Corte di Cassazione con le recenti sentenze 16/10/07 n.21748 e 15/9/08 n.23676 secondo le quali, in sintesi, di fronte al rifiuto di cure c'è spazio nel quadro del!' alleanza terapeutica fra medico e paziente per un'azione di persuasione e c'è il dovere da parte del medico di verificare le ragioni profonde del rifiuto e la possibilità di superarle, ma non c'è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi e di vivere come principio di ordine pubblico. E' questo per la Corte il risvolto negativo dei diritti alla salute e alla libertà che, in quanto tali, implicano anche il diritto di perdere la salute, di non curarsi, di lasciarsi morire. E ciò perché il conflitto fra due beni entrambi costituzionalmente tutelati, della salute e della libertà di coscienza, non può essere risolto sic et simpliciter a favore del primo, avendo ogni individuo il diritto di scegliere e non potendo alcuna autorità statuale legislativa, amministrativa,
giudiziaria imporre trattamenti sanitari individuali al di fuori dei casi consentiti dalla legge.";
h - "In relazione a queste conclusioni, alcune considerazioni si impongono. E' riconosciuto in dottrina e giurisprudenza che il medico è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente affidato alle sue cure, si rinviene il fondamento giuridico di tale posizione nell'art. 40 cpv c.p., oltre che negli obblighi contemplati nel contratto di prestazione d'opera che si stipula tra le parti per effetto del ricovero nella struttura sanitaria o della richiesta di cure, nel!' impegno formalmente assunto dal professionista con il giuramento, nei principi ispiratori del Codice deontologico della categoria, nella consuetudine che vede da sempre la figura del medico come
colui che assiste e cura il malato, nelle nonne di diritto pubblico che disciplinano le forme ed il funzionamento degli enti preposti all'assistenza sanitaria e che configurano la stessa come un servizio pubblico a tutela della salute del singolo e della collettività. Alla recente pronuncia della Corte di Cassazione ( n. 16/10/07 n.21748) non può attribuirsi pertanto una portata tale da vanificare o superare una costruzione dogmatica così fortemente radicata nelle norme positive . E' la stessa Corte, peraltro, che in uno dei passaggi della motivazione richiama testualmente" doverosità medica " specificando che questa " trova il proprio fondamento legittimante nei principi costituzionali di ispirazione solidaristica che impongono l'effettuazione di quegli interventi urgenti che risultino nel migliore interesse terapeutico del paziente" In un altro passaggio la Corte è ancora più esplicita "La tragicità estrema di tale stato patologico ... non giustifica in alcun modo un affievolimento delle cure e del sostegno solidale , che il Servizio Sanitario deve continuare ad offrire e che il malato ha diritto di pretendere fino al sopraggiungere della morte. La comunità deve mettere a disposizione di chi ne ha bisogno e lo richiede tutte le migliori cure e presidi che la scienza medica è in grado di apprestare per affrontare la lotta per restare in vita, a prescindere da quanto la vita sia precaria";

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i - "Dunque, sulla base dei principi giuridici che regolano l' esercizio della professione medica deve ritenersi che il bene della salute sia tutelato dalla Costituzione (art.32) attraverso il riconoscimento di una posizione di garanzia in capo al medico e che dalla titolarità della posizione di garanzia scaturisca direttamente per il medico l' obbligo di attivarsi e di fare il possibile per la salvaguardia del!' interesse tutelato, qualificato come fondamentale diritto dell' individuo, ma anche come interesse della collettività. La pregnanza dell'interesse tutelato se è tale da avere indotto il legislatore a costituire una posizione di garanzia a suo presidio non può nel contempo tollerare soluzioni di continuità o interferenze nel compimento del!' attività di tutela Pertanto non sembra che il diniego del beneficiario della protezione sia idoneo a far desistere il soggetto di essa responsabile perché sarebbe illogico predisporre una copertura cautelare giustificata dalla rilevanza assoluta del bene da proteggere che risultasse però poi in concreto condizionata quanto alla sua attuazione dalla volontà del protetto e rimessa al suo discrezionale consenso, così da trasformare il medico da garante della salute e della vita a mero registratore ed esecutore di volontà e scelte terapeutiche del paziente ( che, peraltro, come nel caso di specie, potrebbero essere in concreto non attuabili e risultare non idonee a salvargli la vita, come il paziente vorrebbe e si aspetta)";
I - "Il principio generale del!' autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi della vita non è qui in discussione, né si dubita della sua qualificazione come diritto personalissimo di rango costituzionale, come ribadito dalla recentissima Cassazione Sezioni Unite del 13/ 11108, ma, si ritiene, il suo concreto esercizio non possa prescindere dalla natura della relazione che si instaura con il medico per effetto della richiesta di cura e dalle modalità e contesti concreti nei quali si
manifesta. Innanzitutto un'autonomia assoluta e incondizionata del paziente non sembra in concreto configurabile stante l' oggetto della prestazione e la peculiarità del rapporto medico/paziente che, in quanto relazione caratterizzata da una asimmetria di informazioni tecniche, non può svolgersi su un piano paritario, ma implica il riconoscimento dei rispettivi ruoli e delle specifiche competenze e la
disponibilità ad un affidamento reciproco (c.d. alleanza terapeutica), così che il medico possa esprimere la propria professionalità e realizzare il servizio di tutela della salute cui è preposto nel!' interesse effettivo del paziente, avendone compreso appieno le esigenze e le aspettative. In secondo luogo la richiesta di ricovero e l'accettazione del paziente nella struttura sanitaria istituzionalmente deputata alla cura impongono ai medici di adempiere a quella funzione di protezione che costituisce l'essenza stessa della professione ma che è anche, per tutto quanto fin qui esposto, un obbligo giuridico ed esigono l'applicazione della terapia ritenuta da essi medici in scienza e coscienza necessaria quoad vitam";
m - Il riconoscimento della doverosità dell' intervento medico trova recente confemia anche in ambito penale, cfr. Cass. Sez.IV 23/1/08 n.16375 "Va esclusa ai sensi degli artt.32/2 e 13 Cost. e

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dell' art. 33 L.833/78 la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questi è in grado di prestare il suo consenso e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità, ricorrendo queste condizioni, nessuna responsabilità è configurabile a carico del medico curante in ordine al decesso del paziente nolente";
n - "Alla luce di quanto fin qui esposto, si ritiene che il Liessi avesse il pieno diritto di rifiutare interventi terapeutici indesiderati o contrari alle sue convinzioni religiose, ma solo a condizione di risolvere il contratto di cura e lasciare la struttura sanitaria, non potendo pretendere di rimanere ricoverato, di essere salvato, come peraltro insistentemente chiedeva, ma di scegliere a sua discrezione le terapie cui sottoporsi, riducendo i sanitari a meri esecutori delle sue determinazioni ( cfr. in proposito la ricostruzione - del tutto conforme al complesso delle risultanze istruttorie - di uno dei medici convenuti, il dr. Majno, nel corso del!' interrogatorio fonnale "Nel pomeriggio erano presenti nel reparto la moglie, il cognato, Trupiano, Venturini ed altri Testimoni di Geova. Ad un certo punto ho preso la decisione ed ho detto ai parenti : o facciamo la trasfusione o lo portate a casa
. I parenti hanno detto che non lo avrebbero portato a casa e che si sarebbero opposti alla trasfusione" ;
o - "La particolarità che contraddistingue la fattispecie e la qualifica rispetto alle situazioni che hanno generato il dibattito in corso è l'esplicita reiterata richiesta del paziente che non aveva alcuna intenzione di lasciarsi morire, ma che anzi, voleva guarire cfr. :Relazione della visita psichiatrica del 23/5 h.l 7 30; il paziente descritto come orientato, e collaborante".,,. Richiede cure compatibili con le sue convinzioni religiose ... chiede di voler vivere e di non voler morire rifiuta comunque una autodimissione e chiede di essere curato rispettando le sue convinzioni .Anche i familiari ( moglie e cognato) rifiutano le cure necessarie ( trasfusioni) e, pur rendendosi conto delle gravi condizioni , rifiutano ogni ipotesi di dimissione chiedendo che rimanga in ospedale per essere curato" Deposizione teste De Amicis Bruno, cognato del Liessi " .... i medici ci avevano chiaramente informato della necessità di effettuare emotrasfusioni , ciononostante mio cognato aveva chiesto di fare il possibile per salvargli la vita, ma con cure alternative ....... A seguito dei dinieghi del Liessi i sanitari chiesero a noi parenti di farlo dimettere e portarlo in altro ospedale, ma rispondemmo che, essendo lucido e cosciente la decisione spettava a lui ...... " Deposizione teste Venturini Giorgio "31 Liessi mi ha riferito che i medici lo avevano avvertito che era in pericolo di vita ... ciononostante lui era deciso a vivere fino in fondo la sua fede, non voleva morire , ma non
voleva neppure trasfusioni"";
p - "In un momento quale quello presente in cui il confronto e l'attenzione dell'opinione pubblica sono fortemente incentrati sulla condotta che deve tenere il medico di fronte alla richiesta ciel malato che non intende proseguire le cure e vuole decidere come e quando morire, la fattispecie si

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colloca in una diversa prospettiva e pone una diverso interrogativo : la volontà del paziente può spingersi al punto di imporre al medico una cura diversa da quella che il sanitario ritiene (correttamente, com'è stato accertato) l'unica valida ed efficace per scongiurare la morte? Da una parte la necessità ed urgenza terapeutica, con la sua connotazione di doverosità, dall'altra una pretesa che non sembra qualificabile come esercizio del diritto di autodeterminazione ma che, comunque, interferendo sulla valutazione in "scienza e coscienza" che solo al soggetto qualificato e
abilitato può spettare, impone la interruzione del rapporto terapeutico.";
q - "L' attrice lamenta che, allorché le venne comunicata l' intenzione dei medici di procedere alle trasfusioni avrebbe richiesto le dimissioni del marito che furono negate . In proposito si rileva come dall' istruttoria - e dalla cartella clinica - sia emerso che ripetutamente nei tre giorni di durata del ricovero i medici invitarono tanto il Liessi quanto i familiari alle dimissioni, ancora alle 17,30 del 23/5 - quindi poche ore prima del decesso - nel corso della visita psichiatrica i familiari vennero
interpellati in tal senso, ma, " rendendosi conto delle gravi condizioni, rifiutano ogni ipotesi di dimissione, chiedendo che rimanga in ospedale per essere curato" Secondo il teste De Amicis Bruno, la moglie del Liessi chiese al Direttore Sanitario non le dimissioni, bensì " se il marito fosse trasportabile in altra struttura "solamente alle h.18,00 quando i medici stavano avviando , in un
~ clima di grande concitazione e tensione che aveva richiesto intervento della PS, le operazioni  trasfusionali, per cui è comprensibile che non ci fosse stata risposta A quel punto infatti era evidente che il tempo necessario per la ricerca di altra struttura, per adempiere le modalità di dimissione di cui all' art. 14 DPR 128/69 (richiesta scritta e motivato parere del sanitario responsabile ) e per organizzare le materiali operazioni di trasferimento del paziente avrebbero impegnato I' attenzione
dei sanitari e impedito qualsiasi possibile intervento salvavita.";
r - "Chiarite la correttezza e la doverosità della terapia trasfusionale, occorre però a questo punto verificare la praticabilità ed esigibilità in concreto della stessa, considerato che, anche nel!' adempimento del dovere professionale, l'agire medico non può prescindere da valutazioni di proporzionalità e adeguatezza dell'azione rispetto al raggiungimento dello scopo. Perché il concreto svolgimento dell'attività medica pone di per se stesso il professionista in una relazione con il paziente che ne determina l'assimilazione a quella del debitore di una obbligazione, la cui condotta nell'adempimento della prestazione deve essere improntata alla diligenza che la situazione concreta richiede. Non può trovare applicazione in questa sede la previsione di cui ali' art.2045 cc. che giustifica la produzione di un evento dannoso necessitato dalla finalità di salvare sé o altri dal pericolo di un danno grave alla persona . Si ritiene infatti (fin da Cass.2819/71 n.2660) che la norma, da ritenersi integrata dagli elementi di cui all' art. 54 c.p., operi solo in un ambito extracontrattuale ( l' orientamento contrario è decisamente minoritario) e in una situazione non 


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assimilabile alla fattispecie, presupponendo un intervento spontaneo dell'agente e la causazione di un evento dannoso che scongiura un danno più grave alla persona.";
s - "Con riferimento invece al ripetuto richiamo operato dai convenuti ali' art. 2236 cc. si rileva che nessuna prestazione di speciale difficoltà si imponeva nella fattispecie e , di fatto, nessun errore diagnostico è stato compiuto, la necessità del ricorso ad emotrasfusioni era apparsa ai sanitari subito chiara e non sostituibile con altre terapie. La condotta tenuta non va esente da rilievi colposi certamente non lievi che non attengono tanto a profili tecnici quanto di opportunità sulla base delle
considerazioni seguenti. I criteri ispiratrici della condotta medica sono ormai ben delineati nell'ordinamento :
- l'art. I della L.23/12/78 n.833 prevede che "La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana"
- con la L. 28/3/01 n.145 il nostro Stato ha autorizzato la ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa per la protezione dei diritti dell' uomo e della dignità dell' essere umano riguardo all' applicazioni della biologia e medicina " (La Convenzione adottata nel 1997, sebbene non ancora ratificata non è priva cli effetto nell'ordinamento, avendo comunque una funzionale indicatrice e di ausilio sul piano interpretativo cli quelli che sono i principi cui lo Stato intende uniformarsi)
- il Codice cli deontologia medica nella versione più datata del 1995 ed in quella più recente nel ribadire che il dovere del medico è la tutela della vita e della salute fisica e psichica del paziente riconosce come valore di riferimento dell'agire il rispetto della libertà e dignità della persona umana

t - "E' il caso in esame in cui il diniego alle trasfusioni era giustificato da un credo religioso al quale il Liessi aderiva profondamente e convintamente, supportato in ciò da amici e familiari Da qui il dovere di prospettare terapie efficaci, ma nello stesso tempo di attuarle con modalità il più possibile rispettose della dignità e della libertà del paziente.";
u - "In relazione alla condotta dei medici sin qui descritta il collegio peritale, che non ha avuto alcun dubbio nel riconoscere che la trasfusione era I' unica scelta terapeutica praticabile, ha invece espresso sconcerto ed imbarazzate perplessità, comprensibili di fronte ad un comportamento dei sanitari così palesemente inadeguato e brutale. E' certo che i curanti fossero ben consapevoli che il Liessi era un paziente fortemente defedato, cui bastava un piccolo sforzo - come quello di passare dalla posizione distesa a quella seduta - per provocargli una sincope, così com' era avvenuto

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qualche ora prima . Come possono allora avere sottovalutato i rischi su un equilibrio così precario di un intervento praticato all'insegna della forza e della sopraffazione fisica ?";
v - "Secondo i ctu lo stato d'agitazione del Liessi in parte dovuto alla contenzione, in parte allo stress emotivo per la violazione delle sue convinzioni religiose, considerato il già scarso apporto di ossigeno al cervello, ha avuto un ruolo concausale aumentando la produzione di adrenalina, e di conseguenza il fabbisogno di ossigeno, così che il muscolo cardiaco, già criticamente compromesso da una patologia coronaria e da un apporto di ossigeno ridotto a causa della grave anemizzazione, non è stato più in grado di reggere al sovraccarico. A queste stesse conclusioni era giunto il consulente tecnico del Pubblico Ministero nel procedimento penale, affermando che, pur non potendo quantificarsi l'entità dello stress emozionale indotto dalla emotrasfusione coatta, vi erano elementi, tra cui il breve lasso cronologico con l'arresto cardiaco, per ritenere che avesse avuto senz'altro un ruolo concausale nel determinismo del decesso, che si sarebbe comunque verificato, ma con meccanismi fisiologici diversi. La terapia trasfusionale che avrebbe dovuto salvare la vita al paziente, per le modalità con le quali è stata attuata ne ha invece, con elevata probabilità, secondo i Ctu, anticipato il decesso. Con l'inopportuno ricorso alla forza pubblica ed ai mezzi di contenzione i sanitari convenuti da un lato hanno posto in essere una delle cause del decesso, dall'altro hanno violato elementari precetti deontologici e del vivere civile, offendendo i sentimenti e la dignità del paziente. Senza la forzata trasfusione, stante il tenace e lucido dissenso, il Liessi sarebbe deceduto di li a poco, ma in ben altre condizioni. C'è una dignità anche nel processo del morire che al Liessi è
stata negata : negli ultimi momenti della sua vita ha visto agenti della Polizia entrare nella stanza di ospedale, ha assistito all'allontanamento dei familiari da parte degli agenti, ha subito, lucido e presente, l'umiliazione di essere legato al letto, sopraffatto da medici ed infermieri, dopo avere tentato di alzarsi come estremo tentativo di sottrarsi alla trasfusione. E' rimasto solo, in preda alla disperazione, fino a che non è sopraggiunto il decesso ( cfr. dep. De Amicis)";
z - "Ebbene, tutto ciò non ha niente a che fare con i concetti di cura e di prestazione sanitaria salvavita, né quelle suddescritte possono qualificarsi come attività connesse o connaturate alla normale esecuzione di un trattamento terapeutico. I consulenti d' ufficio hanno precisato che, da un punto di vista tecnico, la contenzione era I' unico mezzo per rendere possibile l'emotrasfusione in un paziente tenacemente dissenziente, ma, anche volendo prescindere dalle condizioni obbiettive del paziente che da sole avrebbero dovuto sconsigliare un simile stress, sì ritiene che l'esercizio della funzione di garanzia in capo ai medici cosi come pure l'obbligo contrattuale di adempimento della prestazione, non possano spingersi fino a travalicare diritti inviolabili di ogni essere umano e
costituzionalmente protetti (artt.2-3 Cost.) quali la libertà personale, la dignità. la solidarietà che impongono una soglia di rispetto invalicabile da pai1e di chiunque e di fronte ai quali devono 

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arrestarsi, non potendo fondare la propria legittimazione (o esigibilità) su metodi caratterizzati da violenza fisica o morale che l'ordinamento giuridico e la società civile non ammettono. I convenuti, pur nella comprensibile difficoltà del momento, considerato il grave quadro clinico del soggetto sul quale si apprestavano ad intervenire, avrebbero dovuto evitare di esasperare la contrapposizione con
paziente e parenti al punto tale da rendere necessario addirittura l' ingresso di agenti di PS nella camera del Li essi, evento che già di per sé deve avere sortito un effetto scioccante - confermandogli l'impressione di stare subendo una ingiusta prevaricazione piuttosto che un intervento salvifico - e contribuito a rafforzarne le resistenze, così da richiedere poi l' ulteriore imposizione della contenzione In tal modo si è verificato un superamento della posizione di garanzia giacché l' eccesso d' intervento ha fatto si che l'azione dei sanitari non risultasse più concretamente adeguata al perseguimento della tutela della salute, come l' epilogo della vicenda ha dimostrato La scelta delle modalità attuative del trattamento terapeutico si è cosi tradotta in un pregiudizio alla vita e agli altri diritti della persona del paziente. Ne consegue l'obbligo risarcitorio ex artt.1218 e 1226 cc.";
z 1" - La determinazione dell'entità del risarcimento si presenta complessa, stante la peculiarità della fattispecie in cui il danno si è concretato nell'aver reso particolarmente penose le ultime ore di vita del paziente al punto da deterrninare l' anticipazione del decesso rispetto a quanto sarebbe avvenuto in assenza dell'azione coercitiva. La difficoltà di valutazione è ancor più evidente se si considera la sproporzione qualitativa tra i beni lesi ed il rimedio patrimoniale attuato dal risarcimento. I ctu, descritte le condizioni del Liessi immediatamente prima della trasfusione (gravissimo stato di anemia anemica, appena reduce da un episodio sincopale scarsamente compensato, possibilità di ripresa della emorragia dello stomaco per distacco del coagulo, necrosi miocardia) hanno ipotizzato un range temporale di sopravvivenza, in assenza di terapie trasfusionali, da qualche ora ad un giorno. Per questo limitato arco temporale va pertanto riconosciuto al Li essi il risarcimento del danno biologico e del danno morale ... Considerate le conseguenze del pregiudizio ed il tempo di percezione dello stesso, e dunque di durata della sofferenza, appare equo liquidare il danno subito dal Liessi in €. 12.000,00 oltre interessi legali dal 2315196 al saldo . Il diritto al risarcimento deve ritenersi acquisito ed è entrato a far parte del patrimonio del danneggiato al momento del fatto illecito, prima del suo decesso e dunque trasmissibile agli eredi. L'odierna attrice è stata privata della possibilità di rimanere vicina al marito  morente, di assisterlo e confortarlo nelle ultime ore di vita, di accompagnarlo verso la fine. 

Considerato il legame che li univa non solo nella vita ma altresì nella condivisione della fede religiosa, lo stato d'animo e la sofferenza che una tale privazione deve avere determinato sono comprensibili e immaginabili e non richiedono ulteriori indagini e commenti A titolo di 

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risarcimento del danno morale dell' attrice appare equo liquidare la somma di E. 8.000,00 oltre interessi legali al tasso medio del 3,75% dal 23/5/96 al saldo".
A fondamento della proposta impugnazione ha dedotto l'appellante:
a - il Tribunale di Milano ha negato il diritto di autodeterminazione del paziente ricoverato, la cui violazione integra gli estremi dei reati di cui agli artt. 589, 605 e 610 c.p.;
b - il primo giudice ha negato la violazione del diritto del Liessi ad essere dimesso dall'Ospedale San Carlo;
c - la inadeguatezza del risarcimento liquidato e mancato riconoscimento del danno patrimoniale. Nel costituirsi in giudizio gli appellati Azienda Ospedaliera Ospedale S. Carlo Borromeo, dott. Giuseppe Bonfardeci, dott. Rinaldo Maino, dott. Claudio Luigi Enrico Mariani, Laura Speccher (quale erede del dott. Attilio Maria Bigatello), Anna Chiara Bigatello (quale erede del dott. Attilio Maria Bigatello) hanno dedotto la infondatezza dei motivi addotti a sostegno del proposto gravarne ed ha concluso per il rigetto di questo, vinte le spese. Essi poi hanno, in via di appello incidentale, richiesto la modifica della impugnata decisione nel punto in cui il primo giudice
aveva apprezzato che le modalità esecutive della trasfusione sarebbero state "inadeguate e brutali" Instauratosi in tal guisa il contraddittorio, senza ulteriori acquisizioni istruttorie, sulle conclusioni delle parti, precisate come in epigrafe trascritte, la causa è stata assegnata in decisione una volta scaduti i termini fissati per il deposito delle memorie difensive conclusive.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Esaminando i motivi di gravame dedotti dal difensore dell'appellante questa Corte ritiene che le censure mosse alla sentenza del primo giudice siano ingiustificate e che le valutazioni cd i giudizi espressi in detta pronunzia debbano trovare in questa sede di gravarne piena conferma.
Come si è visto con il primo motivo censura l'appellante la decisione di primo grado sul rilievo che il Tribunale di Milano avrebbe negato il diritto di autodeterminazione del paziente ricoverato, la cui violazione inte!,,'fa gli estremi dei reati di cui agli artt. 589, 605 e 610 c.p.
Ha argomentato la propria censura l'appellante deducendo che pervero il primo giudice aveva riconosciuto in astratto il diritto del paziente Remo Liessi di rifiutare un trattamento sanitario, anche se vitale, ma poi aveva affermato che, nel caso specifico, il Liessi non aveva tale diritto sul rilievo che il diritto di autodeterminazione del paziente non sarebbe assoluto, ma incontrerebbe forti limitazioni, derivanti dalla posizione di garanzia posta dalla legge in capo al medico. Il quale avrebbe in ogni caso il dovere di attivarsi e di fare il possibile per curare il
paziente, essendo la salute fondamentale diritto dell'individuo, ma anche interesse della collettività. 

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Il paziente quindi avrebbe il diritto di rifiutare i trattamenti indesiderati o contrari alle sue  convinzioni religiose, - ha concluso la sua argomentazione in primo giudice - ma solo a condizione di risolvere il contratto di cura e di lasciare la struttura sanitaria, non potendo invece chiedere di rimanere ricoverato e nello stesso tempo di "scegliere a sua discrezione le terapie cui sottoporsi", rifiutando le cure ritenute necessarie dai medici, che altrimenti sarebbero ridotti al ruolo di "meri esecutori delle sue determinazioni", e se la struttura sanitaria ed i medici convenuti, nel caso del Liessi, non sono andati esenti da condanna risarcitoria, ciò non è dipeso quindi dalla realizzata violazione della lucida volontà dissenziente dcl paziente, ma è solo la conseguenza dcl fatto che, nell'esecuzione del trattamento coatto, giudicato corretto e doveroso, i medici adottarono comunque modalità esecutive inadeguate e non proporzionate al caso, tali da condurre ad un giudizio di colpa grave sul loro operato, per aver trasfuso con la forza (legandolo al letto e facendo intervenire la
forza pubblica per allontanare i suoi cari) un paziente gravemente debilitato, sottoponendolo ad uno stress tale che ne causava in breve la morte per arresto cardiocircolatorio.
Rileva la Corte che la proposta censura appare dcl tutto fondata dal momento che decisione resa in questi termini dal primo giudice è contraddittoria, perché pone sul piano della norma Costituzionale norme di rango inferiore, perché non trova riscontro nei dati normativi vigenti, perché svuota di contenuto gli arti. 2, 13, 32, 2° c. e 19 Cost., negando il diritto del paziente ricoverato di rifiutare un trattamento sanitario, perché è ancorata al vecchio modo di concepire il rapporto medico/paziente, perché nega il principio del "consenso informato", inteso come sintesi dei diritti all'autodeterminazione e alla salute, principio ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione Sezioni Penali, della Corte di Cassazione Sezioni Civili, dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, e recepito ampiamente dalla giurisprudenza dei Tribunali e delle Corti di merito.
L'errore di fondo, insanabile ed assoluto, che si annida alle fondamenta dell'iter logico argomentativo seguito dal primo giudice consiste nell'essere andato alla ricerca (ed alla fine avere ritenuto di averlo trovato) di una sintesi fra la previsione di cui all'art. 32, 2° c., Cost. e la posizione espressa dalla Corte di Cassazione - secondo cui il rifiuto ad una terapia espresso dal paziente cosciente e capace deve essere rispettato sempre e comunque - ed una assurda ed incoerente limitazione del diritto costituzionale di autodeterninazione del paziente circa le cure cui
sottoporsi, affermando il contestuale obbligo del medico, titolare di una asserita posizione di garanzia, di attivarsi per curare il paziente affidato alle sue cure, anche contro la volontà del paziente stesso, soprattutto quando la cura sia necessaria ed urgente e di avere individuato il momento di questa innaturale sintesi nella necessità per il paziente di sottrarsi alle cure del medico nella specie chiedendo le dimissioni dall'ospedale in cui si trova ricoverato.

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A questo punto una prima notazione sorge spontanea ed è relativa alla illogicità - prima ancora che alla infondatezza - della tesi così argomentata. Infatti posto che la asserita posizione "di garanzia" riconosciuta dal giudice al sanitario ospedaliero deve essere necessariamente riconosciuta anche a qualunque altro sanitario che sia stato chiamato al capezzale di un malato al fine di apprestare le cure mediche del caso, e posto che necessariamente anche in questo caso l'unica possibilità per il paziente di non praticare le cure prescritte sarebbe quella di licenziale il sanitario chiamato al capezzale per le cure del caso, una domanda rimane desolatamente senza risposta: ma se è vero che il rifiuto ad una terapia espresso dal paziente cosciente e capace deve essere rispettato sempre e comunque, nei confronti di chi questo diritto può e deve essere fatto valere, posto che in questi casi dall'ospedale bisogna andarsene e bisogna altresì licenziare il medico chiamato al capezzale?.
Che significato ha un rifiuto ad una terapia espresso dal paziente cosciente e capace e che deve essere rispettato sempre e comunque, se questo rifiuto non può essere fatto valere nei confronti del sanitario che prescrive la cura?.
Ma la tesi - come si è detto è palesemente infondata.
Invero il diritto di autodeterminazione del paziente si fonda su una nonna di rango
costituzionale (l'art. 32 della Costituzione), laddove il dovere del medico di attivarsi a tutela del bene salute deriva invece - secondo quanto il Tribunale stesso affenna . da una posizione di garanzia fondata sull'art. 40, 2° comma c.p., sugli obblighi contemplati nel contratto di prestazione d'opera che si stipula tra le parti per effetto del ricovero nella struttura sanitaria o della richiesta di cure, sull'impegno formalmente assunto dal medico con il giuramento di Ippocrate, sui principi
ispiratori del Codice Deontologico della categoria medica, sulla consuetudine secondo cui il medico cura il malato, sulle norme di diritto pubblico che disciplinano gli enti preposti all'assistenza sanitaria, configurandola quale servizio pubblico a tutela del diritto dell'individuo e nell'interesse della collettività (pag. 17 § 2 della sentenza).
Pare allora alla Corte evidente del fatto che il primo giudice non ha fatto buon governo del principio della c.d. "gerarchia delle fonti del diritto" posto che secondo il suo argomentare la posizione di garanzia del medico, che come si è detto trova fondamento in nonne di rango subordinato rispetto all'art. 32 Cast., limiterebbe, pur in assenza di un interesse pubblico (quale sarebbe, ad esempio, l'esigenza di scongiurare il rischio di contagio o il rischio che l'infermo di mente diventi pericoloso per la collettività, casi tutti questi che legittimano il ricorso al c.d.TSO), il diritto costituzionale di autodeterminazione del paziente, e ciò in palese violazione, appunto dei principi che regolano la gerarchia delle fonti del diritto e in netto contrasto con la giurisprudenza

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della Suprema Corte di Cassazione, Sezz. Civili e Penali e della Corte Costituzionale, giurisprudenza troppo nota per doverla qui ripercorrere.
Sarà sufficiente ricordare quanto ha insegnato Cassazione Civile, Sez. III, n. 2847/2010, laddove ha ribadito che "Il diritto all 'autodeterminazione è, del resto, diverso dal diritto alla salute ... Esso rappresenta ad un tempo, una forma di rispetto per la libertà dell'individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi, che si sostanzia non solo nella facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e ne sancisce il rispetto in qualsiasi momento della sua vita e nell'integrità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive". ln considerazione di ciò, prosegue la sentenza, "la lesione del diritto all'autodeteminazione non
necessariamente comporta la lesione della salute, come accade quando manchi il consenso ma l'intervento sortisca un esito assolutamente positivo ... "; "un conflitto regolato ab externo è, invece, escluso in radice dalla titolarità di pur contrastanti interessi in capo allo stesso soggetto, al quale soltanto, se capace, compete la scelta di quale tutelare e quale sacrificare .... Anche in caso di violazione del diritto all'autodeterminazione, pur senza correlativa lesione del diritto alla salute
ricollegabile a quella violazione per essere stato l'intervento terapeutico necessario e correttamente }eseguito, può dunque sussistere uno spazio risarcitorio".
A bene vedere, quindi, il dictum del giudice di primo grado si risolve non solo nella
violazione del diritto all'autodeterminazione ma anche nella negazione del diritto alla salute del paziente, quale diritto dell'individuo ad uno stato di benessere fisico e psichico, per affermare la supremazia della salute fisica, quale interesse della collettività. La corretta impostazione del diritto alla salute è richiamata, invece, in primo luogo dall'art. 32, l 0 co. Cost., che prevede il compito dello Stato di tutelare la salute "come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività". A seguito dell'inclusione nel novero dei diritti inviolabili dell'individuo di cui all'art. 2
Cosi., il diritto alla salute viene ormai considerato come sufficientemente fondato già in forza del precetto costituzionale, e, dunque anche solo per questo senz'altro azionabile contro comportamenti lesivi di terzi, sia nei rapporti tra privati che nei rapporti dei pubblici poteri (C. Cost. sentenze nn. 88/l979 e I 84/1986)
Ed allora ecco pronta la risposta ai quesiti di cui dianzi si è accennato risposta che chiarisce che affermare che il malato, quando si affida al medico, nulla può opporre contro le decisioni terapeutiche di quest'ultimo, mentre, se chiede le dimissioni, torna libero di fare ciò che vuole,

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perché la posizione di garanzia del medico svanisce, equivale a riconoscere i diritti
all'autodeterminazione e alla salute del paziente soltanto al di fuori del rapporto sanitario.
Si tratta all'evidenza, di conclusioni inaccettabili, prima ancora che sul piano giuridico, su quello etico, perché in nome della tutela del bene salute, di fatto si allontana il malato dal medico, privandolo persino del conforto morale che, al pari del trattamento terapeutico più adeguato al caso, costituisce l'oggetto della prestazione sanitaria.
Infatti esclusa la facoltà del paziente di opporre al medico il rifiuto di una cura non obbligatoria, anche se necessaria, il diritto di autodeterminazione del paziente viene privato in buona sostanza della sua componente più pregnante, quella negativa, e limitato a quella positiva di mera facoltà di decidere se affidarsi o meno alle cure di un medico. Invece è proprio la componente negativa, quella che si esplica all'interno del rapporto medico-paziente, che dà maggiore sostanza al diritto di
autodeterminazione del paziente, come diritto dell'individuo, riconosciuto dall'art. 32 della Costituzione, dì rifiutare una cura. In altre parole va riaffermato il principio secondo il quale il medico, oggi, dismesso il ruolo di dominus, padre padrone della salute del paziente, è legittimato ad operare solo nell'ambito di "un'alleanza terapeutica" con il paziente che si sia affidato alle sue cure, paziente che deve essere adeguatamente informato, per poter esercitare consapevolmente il diritto di
autodeterminazione circa le cure cui sottoporsi.
Ma a ben vedere l'impostazione del giudice di primo grado non è condivisibile, perché assegna alla salute, quale interesse della collettività, un primato sul corrispondente diritto dell'individuo che non trova riscontri nell'ordinamento e nelle decisioni della Suprema Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale. L'impostazione qui criticata è ancor meno condivisibile nella parte in cui introduce il terna della tutela del bene della vita, quale fine ultimo che legittima e rende lecita l'azione terapeutica coattiva.
Vi è in effetti un passaggio della sentenza impugnata in cui risulta svelata l'impostazione ideologica che evidentemente ispira la pronuncia di primo grado. A pag.19 della sentenza si legge:
" ... la richiesta di ricovero e l'accettazione del paziente nella struttura sanitaria ... impongono ai medici di adempiere a quella funzione di protezione che costituisce l'essenza stessa della professione ma che è anche, per tutto quanto fin qui esposto, un obbligo giuridico ed esigono l'applicazione della terapia ritenuta da essi medici in scienza e coscienza necessaria quoad vitam"
Ecco quindi che riemerge il tema della tutela della vita, caro a tutti coloro che sono disposti a giustificare l'intervento coattivo dei sanitari sul paziente lucido e dissenziente. Secondo questa impostazione, condivisa dal giudice di primo grado, il medico potrebbe imporre al paziente affidato alle sue cure tutte le terapie ritenute utili alla sua salute e quelle necessarie per salvargli la vita.

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Al contrario ritiene la Corte che come la salute, neppure la tutela del bene della vita, in realtà, può giustificare, alla luce del dettato costituzionale, la limitazione del diritto di autodeterminazione del paziente circa le cure cui sottoporsi. È inconciliabile, infatti, con la previsione dell'art. 32, 2° comma Cost., la limitazione del diritto di autodeterminazione fondato sulla tutela prevalente del bene vita, sulla indisponibilità della vita ai sensi degli artt. 579 c.p. e 580 c.p., che sono norme peraltro di rango subordinato a quella costituzionale. 
Peraltro questa stessa Corte si è espressa in argomento con il decreto n. 88, del 25 giugno 2008, allorchè alla pag. 27, ha affermato che non esiste nel nostro ordinamento giuridico nessun bene vita, inteso "come un'entità esterna all'uomo, che possa imporsi ... anche contro ed a dispetto della volontà dell'uomo" ma esiste invece il bene di vivere da uomo libero con la propria identità e 
dignità.
Con il secondo motivo ha censurato l'appellante la decisione del primo giudice sul rilievo che questi ha negato la violazione del diritto del Liessi ad essere dimesso dall'Ospedale San Carlo. 

Ha argomentato in particolare la censura l'appellante deducendo che il giudice di primo grado, sebbene abbia riconosciuto in astratto l'esistenza di tale facoltà per il paziente ("si ritiene che il Liessi avesse il pieno diritto di rifiutare interventi terapeutici indesiderati o contrari alle sue convinzioni religiose, ma solo a condizione di risolvere il contratto di cura e lasciare la struttura sanitaria", pagg.19, 20 della sentenza), ha ritenuto che, nel caso concreto, non vi sarebbe stata violazione dei diritti del paziente, dimentico del tutto di ricordare che quando fu chiaro che i sanitari del S. Carlo non avrebbero rispettato la volontà del paziente e si accingevano ormai a dare inizio al trattamento trasfusionale, al punto che veniva chiamata la forza pubblica per allontanare dalla stanza amici e parenti, la sig.ra De Amicis Liessi, odierna appellante, chiese ai sanitari le dimissioni del marito, ma non ottenne alcuna risposta.

La censura in questi termini strutturata appare fondata dal momento che la ricordata circostanza di fatto risulta chiaramente dagli atti di causa siccome confennata anche dalla prova testimoniale assunta (vedi testimonianza del sig. Bruno De Amicis), ma a fronte di ciò la impugnata decisione con una motivazione per certi versi perplessa afferma che la sig.ra De Amicis non avrebbe chiesto le dimissioni del marito, ma si sarebbe limitata ad informarsi se il marito fosse in condizioni d'essere trasportato, senza ricevere risposta dai medici.

Ci si chiede a che scopo la sig.ra De Amicis avrebbe dovuto chiedere infonnazioni sul trasporto del congiunto, se non perché desiderava che il marito fosse dimesso.Non solo. Una chiara richiesta di dimissioni, al di là di quanto chiesto dalla moglie, provenne direttamente dal Liessi che, se prima aveva chiesto d'essere curato nel rispetto della sua

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volontà, una volta che i medici si accingevano a legarlo al letto, per dare inizio alla trasfusione, resisteva fisicamente ai sanitari, cercando addirittura di alzarsi dal letto per sottrarsi ai sanitari.

Aggiunge poi il Tribunale - sommando incongruenza ad incongruenza - che poiché la richiesta di dimissioni giunse poco prima dell'inizio della trasfusione coatta, era normale che i medici non rispondessero a quella richiesta, che sarebbe stata tardiva, dando a questo punto per accertata la esistenza di un termine finale per esercitare il proprio e personalissimo diritto di chiedere le dimissioni.

Con il terzo motivo deduce l'appellante la inadeguatezza del risarcimento liquidato e mancato riconoscimento del danno patrimoniale.

Come si è visto il giudice di primo grado, pur avendo negato la violazione del diritto di autodeterminazione del Liessi e conseguentemente quella della sua libertà personale, ha ritenuto i medici e la struttura sanitaria colpevoli per le inadeguate e brutali modalità di esecuzione della terapia trasfusionale, integranti "un pregiudizio alla vita e agli altri diritti della persona del paziente". Quindi a fronte della grave violazione di plurime posizioni costituzionalmente tutelate e richiamate solo in modo generico, il Tribunale ha poi liquidato solo il risarcimento per i danni biologico e morale, subiti dal sig. Liessi, e quello per il danno morale subito dalla moglie, sig.ra Vittoria Dc Amicis, con importi - peraltro. che a giudizio dell'appellante risultano insufficienti a costituire un equo ristoro persino dei pochi pregiudizi presi in considerazione dal Tribunale.

La censura appare alla Corte chiaramente fondata.

Oggi, a seguito dei recenti insegnamenti della Corte di Cassazione (n. 26972 e ss del 11.11.2008) in tema di danno non patrimoniale, il c.d. danno morale soggettivo non costituisce autonoma voce di danno, ma la sofferenza opera come criterio di quantificazione del danno non patrimoniale complessivamente inteso, da liquidarsi unitariamente, tenendo conto di tutti i diritti e gli interessi costituzionalmente tutelati, che siano stati oggetto di lesione. Orbene esaminando con animo scevro da pregiudizi l'intera vicenda oggi sottoposta alla delibazione della Corte non pare revocabile in dubbio che:

a - il Liessi, legato ad un letto di ospedale, in presenza degli agenti della Polizia di Stato che allontanava dalla sua stanza la moglie, i parenti e gli amici, ha subito la più umiliante violazione della libertà personale;

b - il Liessi, trasfuso coattivamente dopo essere stato legato ad un letto e pnvato del conforto dei cari, è stato offeso nella sua dignità di uomo, prima ancora che di ministro di culto;

e - il Liessi è stato costretto a subire la violazione dei principi religiosi in cui credeva fermamente, tanto da dedicare la sua vita per insegnarli agli altri, il Liessi è stato offeso anche nel suo profondissimo sentimento religioso, di ministro di culto e di fedele.

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d - al Liessi è stato negato il diritto di vivere il tempo rimasto nella serena consapevolezza di aver rispettato sempre i precetti religiosi cui aveva improntato la sua vita e quindi è stato leso il suo diritto all'identità personale.

Quindi, accanto ed oltre al danno biologico per la violazione della sua integrità fisica, ricorre nel caso del Liessi la violazione della libertà di autodetenninazione del paziente, della sua libertà personale, della sua dignità, della sua libertà religiosa, tutte posizioni riconosciute e tutelate dalla Costituzione.

Trattasi - come è evidente - di violazioni di diritti tutti costituzionalmente garantiti e tutelati, onde assai rilevante deve ritenersi essere stato il vulnus sofferto dal paziente Liessi Remo, morto vittima di profonda sofferenza morale, subendo la violazione di diritti costituzionali che ogni comunità democratica giudica inviolabili e che avrebbero meritato ben altra considerazione.

E tale diversa considerazione è chiamata ad operare la Corte la quale, in coerenza con quanto fin qui affermato liquida unitariamente il ridetto danno non patrimoniale (o danno morale soggettivo) nella somma di€ 300.000,00 in moneta attuale e quindi con l'aggiunta dei soli interessi legali dalla data della decisione di secondo grado al saldo.

Del pari insufficiente si appalesa la liquidazione dei danni riconosciuti alla sig.ra De Amicis Liessi, alla quale è stato riconosciuto, quale unico pregiudizio risarcibile, quello di non aver potuto assistere il marito negli ultimi istanti di vita, essendo stata allontanata dalla Polizia cli Stato dalla stanza del marito.

Ma non è solo questo.

A proposito della posizione del coniuge superstite va detto che nella condotta degli odierni appellati sono sicuramente ravvisabili alcune ipotesi di reato quanto meno sotto il profilo della violenza privata e del sequestro di persona con le aggravanti ex art. 112 c.p, con la conseguenza che bene a costei - che di gran parte della vicenda è stata testimone oculare e che per altra parte l'ha vissuta con lo strazio del soggetto escluso con la forza dal luogo nel quale si sono consumati le violenti condotte ai danni del coniuge - deve essere liquidato per queste sofferenze anche il danno morale ex art. 185 c.p. e 2059 e.e., oltre al danno morale per la perdita del coniuge. Tale danno morale globalmente la Corte stima equo determinare nella complessiva misura di € 100.000.00. sempre in moneta attuale e quindi con l'aggiunta dei soli interessi legali dalla data della decisione di secondo grado al saldo.

Null'altro ritiene la Corte che nel caso di specie possa essere liquidato a titolo dirisarcimento dei danni dal momento che le assai gravi condizioni in cui versava il paziente al momento dei fatti - e che sono state bene poste in luce dalla espletata CTU - escludono che vi sia

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stata una efficacia concausale - di entità apprezzabilmente autonoma e rilevante - della condotta dei sanitari nel cagionare il decesso del paziente.

E ciò vale anche ai fini del lamentato danno patrimoniale.

Una ultima serie di notazioni deve essere fatta per dare risposta nello specifico ad alcune difese svolte dagli appellati.

In particolare hanno argomentato la propria difesa i ridetti sanitari ribadendo anche in questa sede di gravame la piena legittimità dell'emotrasfusione imposta al Liessi, il quale al cospetto dei medici non avrebbe manifestato la propria volontà in modo univoco. I sanitari argomentano la loro difesa riconoscendo in linea generale e di principio che il paziente ha diritto, in astratto, di rifiutare una cura, ma sostengono che questo non sia il caso di specie in quanto - sostengono - il Liessi avrebbe manifestato volontà contraddittorie, dal momento che ha rifiutato, pervero, il trattamento emotrasfusionale, per motivi di ordine religioso, e nel contempo ha richiesto di essere curato, dicendo che era suo desiderio vivere.

La verità, tuttavia, è affatto diversa.

Remo Liessi, che non aveva l'animo ed intenzioni di suicidio, era consapevole che il rifiuto dell'emotrasfusione avrebbe messo in pericolo la sua vita, pur tuttavia era pronto a farsi carico di quel rischio, così come ebbe a dichiarare una prima volta (ali 'ingresso nel nosocomio) e ripetere più volte ai medici curanti, in modo consapevole, netto e chiaro, avendo superato persino un esame psichiatrico cui venne sottoposto. Egli certamente sapeva del grave rischio per la vita cui era esposto, ma continuò a rifiutare il trattamento emotrasfusionale, urlando il proprio rifiuto fino ad opporsi fisicamente ai medici che lo trasfondevano coattivamente, dopo averlo legato al letto. (e di ciò sono ottima testimonianze le notazioni che figurano in cartella clinica). Egli aveva sottoscritto un'ampia dichiarazione di volontà, al momento del ricovero, poi inserita nella cartella clinica, in cui affermava di "rifiutare categoricamente qualsiasi trattamento sanitario che richieda l'uso del sangue intero o dei suoi componenti principali come globuli rossi, globuli bianchi, piastrine e plasma, somministrati in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo", aggiungendo: "tale mio rifiuto circa il sangue è assoluto, definitivo e valido in ogni circostanza, anche di fronte al pericolo di vita e in assenza di metodiche alternative" (doc. 4 fascicolo del primo grado).

Più chiaro e netto di così.

Ma la realtà è molto diversa.

In effetti i medici compresero molto bene - e da subito - il fermo ed univoco rifiuto opposto dal Liessi e perciò vissero un personalissimo dilemma tra il dovere (previsto dalla legge e dal codice deontologico) di rispettare quella volontà consapevole, chiara ed univoca e la ritenuta opportunità di sottoporre il paziente a tutti i costi al trattamento emotrasfusionale rifiutato

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Dilemma - è chiaro - che traeva origine non dalla volontà del paziente, che fo manifestata in modo consapevole, chiaro ed univoco, ma dall'erronea convinzione che, nonostante il dovere di astensione, il medico comunque possa agire, in scienza e coscienza (la propria!), a tutela della vita del paziente, anche contro la sua volontà. in ultima analisi questa Corte non può non condividere appieno le argomentazioni conclusive svolte sul punto dalla difesa dell'appellante allorchè afferma che "Alla base di questo dilemma c'è, in un'ultima analisi, l'erronea interpretazione del proprio ruolo, ancorato evidentemente all'idea sbagliata che il medico sia il dominus della salute del paziente e che debba fare tutto quanto reputi necessario nell'interesse di questi. Vi è inoltre la presunzione dei medici di una sorta di validità assoluta del proprio sistema di valori e quindi l'erronea convinzione che i beni che intendevano tutelare (la salute e la vita del paziente) valessero universalmente come beni superiori, secondo una personalissima quanto limitata scala di valori, in cui peraltro non si teneva

~ conto della salute, intesa come benessere psichico dell'individuo, e della vita, intesa nel suo senso più ampio, comprendente il diritto a scegliere come vivere (comprendente anche il come morire), sostanziato dal diritto di autodeterminazione, dal diritto all'integrità del corpo ed al rifiuto di interventi non desiderati."

In via di appello incidentale, poi, sostengono i sanitari dell'Ospedale S. Carlo e la di fesa del nosocomio che le modalità esecutive della trasfusione non sarebbero state "inadeguate e brutali" (così le ha definite il tribunale di Milano), essendo proporzionate al caso del paziente che resiste fisicamente all'esecuzione di un trattamento sul suo corpo. Il paziente, peraltro, non sarebbe stato legato al letto, ma sarebbe stato solo immobilizzato con dci "bracciali", per evitare che si facesse delmale, e gli agenti della Polizia di Stato sarebbero stati fatti intervenire per la necessità di placare l'inqualificabile "gazzarra" che avrebbero inscenato i suoi cari.

La infondatezza della tesi in questi termini argomentata è dimostrata da quanto si legge nella cartella clinica - di certo non compilata dai familiari del Liessi o da questi medesimo - nel punto in cui si riferisce che "Il paziente rifiuta con la violenza, e con urla, le emotrasfosioni. La Forza Pubblica allontana i familiari dalla stanza, che si oppongono a gran voce" e poi: "Si decide di contenere il paziente per poter attuare l'emotrasfusione" ed ancora : "Il paziente è agitatissimo e incontattabile, in preda ad uno stato di agitazione psicomotoria grave. Si esegue ECG di controllo che conferma lo stato ischemico miocardico ... ". (doc. 3 fascicolo di primo grado). L'esame autoptico (doc. 5 fascicolo del primo grado) ha poi evidenziato la presenza ai polsi del Liessi di ecchimosi, provocate dai legacci con cui il paziente era stato bloccato al letto: "al terzo medio del braccio di sinistra, sulla superficie flessoria, due aree ecchimotiche rosso violacee di forma irregolare". E che non si tratti dei segni lasciati dall'ago durante la trasfusione, risulta dal fotto che

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questi altri segni sono stati rivenuti dal perito dott. Mecacci " ... al terzo inferiore del braccio di destra" ove sono stati rinvenuti segni di recente puntura di ago .... "

Non meritano dunque censura alcuna gli apprezzamenti negativi fonnulati dal primo giudice a proposito della violenza - la Corte starebbe per qualificarla anche irrazionale - con cui è stata operata la emotrasfusione, violenza necessaria - a parere dei medici - per vincere la altrettanto accesa reazione del paziente che in tutti i modi cercava di sottrarsi.

Per quanto - infine - attiene alla addotta estraneità ai fatti del dott. Bigatello, che si sarebbe limitato ad accogliere il Liessi al momento del ricovero, va detto in primo luogo che la circostanza non è stata mai dedotta nel corso del primo grado di causa, tanto che lo stesso non aveva eccepito la sua l'estraneità al trattamento coattivo. La difesa appare pertanto inammissibile.

Ma vi è di più dal momento che nel caso del dott. Bigatello, la consapevolezza del rifiuto opposto dal paziente all'emotrasfusione è indiscutibile, trattandosi del medico che, accogliendo il Liessi al momento del ricovero, aveva ricevuto manualmente la dichiarazione scritta del paziente (doc. 4 fascicolo di primo grado) ed aveva compilato il modulo del "consenso infonnato", in cui è veniva ribadito il rifiuto del trattamento emotrasfusionale (doc. 3, pagg. 41, 42 fascicolo di primo grado). Eppure tutto ciò non impedì al dott. Bigatello di partecipare e condividere la decisione dei colleghi di sottoporre il paziente al trattamento coattivo. Il dott. Bigatello difatti fu presente nel momento in cui il dott. Bonfardeci chiamava il magistrato di turno per chiedere l'autorizzazione ad attivare (illegittimamente) il T.S.O. e sicuramente fu presente nella stanza del paziente, insieme al dott. Bonfardeci, al dott. Majno e Mariani, nei momenti immediatamente precedenti e successivi al decesso, tanto che proprio il dott. Bigatello sottoscrisse l'annotazione del decesso del Liessi sulla cartella clinica alle h. 20.30 del 23.5.1996 (doc. 3 pag.74 fascicolo del primo grado). 

Le spese seguono la soccombenza e : Azienda Ospedaliera Ospedale S. Carlo Borromeo, dott. Giuseppe Bonfardeci, doti. Rinaldo Maino, dott. Claudio Luigi Enrico Mariani, Laura Speccher ed Anna Chiara Bigatello (quali eredi del dott. Attilio Maria Bigatello) devono essere dichiarati tenuti e condannati a rifondere - in solido fra loro - a favore di De Amicis Vittoria ved Liessi quelle da questi sostenute in relazione al presente grado di giudizio e che, tenuto conto della quantità e qualità dell'opera svolta, si liquidano in complessivi € 8.800,00 di cui € 600,00 per spese,€ 1.200,00 per diritti ed€ 7.000,00 per onorario difensivo, oltre rimborso forfetario, gli oneri di legge e le successive occorrende.

P.Q.M.

la Corte d'Appello di Milano, sezione JA civile;

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definitivamente pronunziando nel contraddittorio delle parti, ogni altra, istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede

in parziale riforma della sentenza n.ro 14883/2008 resa fra le parti in data 13 .12.2008 dal Tribunale di Milano

accerta e dichiara tutti gli appellati: Azienda Ospedaliera Ospedale S. Carlo Borromeo, dott. Giuseppe Bonfardeci, dott. Rinaldo Maino, dott. Claudio Luigi Enrico Mariani, Laura Speccher ed Anna Chiara Bigatello (quali eredi del dott. Attilio Maria Bigatello) per il fatto di avere praticato al paziente Remo Liessi la trasfusione di sangue coatta nonostante la contraria volontà da lui lucidamente e reiteratamente manifestata;

a - responsabili della violazione dei diritti del paziente sanciti dal disposto dell'art. 32 della Costituzione della Repubblica Italiana e da altre disposizioni di legge ordinaria;

b - responsabili del fatto - astrattamente configurato dalla legge come reato - di avere costretto con violenza remo Liessi a subire contro la sua volontà il detto trattamento;

c - responsabili del fatto - astrattamente configurato dalla legge come reato - di avere privato il  paziente Remo Liessi della sua libertà personale; 

dichiara conseguentemente tenuti e condanna tutti gli appellati - in via solidale fra loro - al risarcimento a favore di De Amicis Vittoria ved Liessi della somma capitale di 300.000,00 quale erede e della somma di € 100.000,00 in proprio, somme ad oggi rivalutate e con la sola aggiunta degli interessi legali dalla data della odierna pronuncia al saldo;

dichiara tenuto e condanna Azienda Ospedaliera Ospedale S. Carlo Borromeo, doti. Giuseppe Bonfardeci, dott. Rinaldo Maino, dott. Claudio Luigi Enrico Mariani, Laura Speccher ed Anna Chiara Bigatello (quale erede del dott. Attilio Maria Bigatello) - in solido fra loro - a rifondere a favore di De Amicis Vittoria ved Liessi le spese da questi sostenute in relazione al presente grado di giudizio e che si liquidano in complessivi 8.800,00 oltre rimborso forfetario, gli oneri di legge e le successive occorrende.

Così deciso in Milano, nella camera di consiglio del giorno 28.06.2011

R.G. 387/2010       Il Presidente Relatore (Dott. Giuseppe Patrone) 

CORTE D'APPELLO DI MILANO

DEPOSITATA NELLA CANCELLERIA 

DELLA 1a SEZIONE CIVILE il 19 AGOSTO 2011